Le nubi del progresso

Il pensiero naturale
All'esame di maturità mi cimentai in una sorta di interpretazione filosofica di alcune formule della fisica; in particolare fui preso dalle idee di Einstein e di Heisenberg, dal loro modo di stabilire dei limiti in fisica. Capii che in quelle formule dell'incertezza risiede in realtà il fondamento più solido della scienza. Il mio studio ebbe successo e venni contattato dalla Facoltà di Filosofia. All'epoca, tuttavia, nella aule di FIlosofia regnavano altre forme dell'incertezza, si facevano strada l'esistenzialismo e il pensiero nihilista. In queste declinazioni l'incertezza assumeva connotazioni negative; indeboliva i fondamenti, al contrario di quanto avveniva invece in campo scientifico. Nel mio pensiero di allora la relatività e l'indeterminazione dovevano essere legate al razionalismo, non al nulla. Non prosegui quindi gli studi filosofici e mi dedicai invece alla Medicina, dove il fondamento e le basi concrete erano evidenti, perché nessuno può mettere in discussione la realtà della malattia. Così il mio pensiero passò dal razionalismo all'empirismo; abbandonai la ragione astratta, le "prove" matematiche cominciarono a sembrarmi assurde quanto quelle circa l'esistenza di un dio, idea quest'ultima che avevo abbandonato sin da piccolo perché ai miei occhi inconsistente, astratta per l'appunto. Mi distaccai dalla ricerca dei princìpi in generale, il principio divenne la realtà che esperivo e a cui conferivo un valore "oggettivo" per la sua concretezza. Intanto, nel corso degli anni, l'importanza dei valori veniva combattuta nel mondo e finiva per lasciare spazio, invece, alla infondatezza come principio della vita reale. Più avanti mi sono reso conto di come la deriva assunta dal "nihilismo realizzato" avesse cancellato la possibilità di un qualunque fondamento. D'altra parte l'età matura portò in crisi anche l'oggettività della realtà stessa; porprio nell'esercitare la Medicina ci si rende conto che non esistno le malattie, ma le Persone ammalate. Se la realtà in quanto oggettiva doveva sostituire la forza dei pincìpi primi, beh... nel vederla invece soggettiva finiva anch'essa per indebolirsi. Allora ho finalmente compreso la natura profondamente interiore dei princìpi, dei fondamenti. I princìpi appartengono all'Inseità, come fondamento della nostra stessa coerenza interiore, in piena autonomia. Qui non si tratta di cercare prove o evidenze generali, perché quel che in me è evidente, è già con ciò confemato. Il modo di pensare è allora passato dal razionalismo e dall'empirismo alla consapevolezza che né le logiche astratte né la realtà possono essere fondamenti. L'unico fondamento è nelle proprie convinzioni interiori basate sull'esperienza e sulla riflessione. Il fondamento non è nella ragione assoluta e neppure nella realtà ma solo nell'inseità come principio inviolabile della coerenza interiore e della propria autonomia. L'inseità si basa su una conoscenza intuitiva della proprie convinzioni che sono il risultato tanto delle nostre esperienze quanto della riflessione che su queste operiamo. Le convinzioni sono tanto più radicate ed hanno tanto più valore quanto più vasta è l'esperienza su cui si basano e quanto più profonda e continua è la riflessione. Non ci sono idee universali innate né ricavabili con l'esperienza o con la ragione, ognuno vive la realtà a modo suo. Certo, alcuni aspetti che accomunano gli uomini possono aiutarci a trovare idee condivise; si può pensare in tal senso agli aspetti biologici, a quelli culturali e a quelli epocali, ma tutto finisce qui. Per esempio abbiamo tutti gli stessi organi di senso, gli stessi neurotrasmettitori..., esiste una storia scritta sia sociale che scientifica del genere umano, nel presente siamo tutti a contatto con la medesima realtà anche se poi ciascuno la vive diversamente... Eppure? Eppure violenza e barbarie continuano a imperversare, mostrando la precarietà di una qualunque idea generale. Fatta salva - ovviamente - quella dell'inseità e del diritto alla sua inviolabilità come princìpio di libertà individuale. Proprio dall'essere questo l'unico fondamento deriva tuttavia l'ineludibilità della discordia e, spesso, anche del suo esprimersi con la violenza; vuoi giustificata come il ribellarsi a chi attenta alla nostra libertà, vuoi arbitraria e arrogante come in chi pretende di ignorare la libertà altrui in nome della propria. Né esiste una legge di natura capace di per sé di far vivere gli uomini in pace tra loro, così come neppure le leggi imposte dagli uomini riescono in tal senso. Non resta dunque che prenderne atto. Ciò non toglie che l'inseità sia un fondamento più che valido per guidare la nostra vita, tanto sul piano teorico quanto su quello pratico. Il pensiero deve quindi rinunciare a trovare o a imporre idee generali; deve invece fondarsi sulla riflessione e sull'esperienza, consapevole dell'inviolabilità delle convinzioni interiori di ciascuno di noi. Per cercare di persuadere gli altri si possono esporre punti di vista diversi, si possono addurre prove legate ad altri aspetti del reale, o fornire ulteriori evidenze dell'incertezza che è alla base di una qualunque convinzione sensata; ma in ogni caso non si può andare al di là di questo.
Il "pensiero" artificiale
L'intelligenza al silicio (contrapposta a quella al carbonio) si basa sulle informazioni e sui sitemi di calcolo che noi gli forniamo. Ovviamente tanto le capacità mnemoniche quanto la velocità del calcolo sono enormemente superiori a quelle di qualsiasi intelligenza umana. É altrettanto chiaro, però, che l'artificiale non può andare oltre a queste funzioni: un potente calcolatore che opera su un immenso archivio di informazioni umane. Tutto ciò che ad oggi non sappiamo codificare (aspetti emotivi, incertezze di fondo, scelte dei princìpi...) non può essre preso in considerazione dall'Intelligenza Artificiale (IA). Noi "viviamo" questi risvolti, ma se non li valorizzaiamo con la riflessione, se il pensiero viene ridotto a puro calcolo, allora l'IA può bastare. Dobbiamo quindi decidere se l'IA rappresenta davvero oppure no un progresso per noi. A questo scopo serve un chiarimento sulla differenza tra Evoluzione e Progresso. Alle fine del 1600 John Locke nel suo Saggio sull'Intelletto Umano anticipava il pensiero illuministico esortando gli uomini a ragionare con la propria testa, ricordando che il nostro intelletto è più che sufficiente a farci conoscere il mondo in cui viviamo e a guidare le nostre azioni. Gli indiscutibili limiti dell'intelleto umano - limiti che non sono solo raprresentati dalla memoria e dal calcolo, ma come abbiamo visto anche dalla nostra incapacità a codificare molti aspetti del "vissuto" - limiti che peraltro Locke fu uno dei primi a sottolineare, non possono essere presi come scusa dai piagnistei del pessimismo. Non ha senso lagnarsi di non poter conoscere tutto o di non poter giungere a dei princìpi primi indiscutibili, altrimenti sarebbe come dire che uno si rifiuta di camminare sulle sue gambe solo perché non ha anche le ali per volare. Il nihilismo che pervade oggi la cultura occidentale ha invece stravolto il giusto senso del relativo, rendendo irrilevante la scelta dei princìpi su cui basarsi. L'illuminismo resta uno dei pensieri più validi che gli uomini abbiano prodotto proprio perché nel puntare sulle possibilità concrete dell'intelletto, ha spinto gli uomini a uscire dal medioevo, da quello stato di minorità in cui si finisce per versare quando si abdica alla capacità di pensare con la propria testa. Bisogna però riconoscere un errore nel pensiero illuministico, quello di credere in un progresso continuo dell'umanità. Nel leggere la storia umana ha più senso riferirsi al messaggio che proviene dalle teorie evoluzionistiche, piuttosto che all'idea di progresso. In natura esistono due forze che determinano l'evoluzione, la mutazione spontanea e la selezione naturale; dal loro coesistere ne deriva l'adattamento che favorisce il prevalere di un tipo piuttosto che di un altro. In altre parole, il cambiamento non sempre è in meglio, ma sempre è in funzione delle capacità di adattamento; e questo è vero anche per la mentalità umana. Nell'osservare l'attualità non pare proprio che la ragione abbia guidato gli uomini ad essere migliori ora rispetto a tre secoli or sono. Non voglio ripetere la banalità del "si stava meglio quando si stava peggio" e non auspico quel "ritorno all'età dell'oro" di cui oltre una certa età sembrano farsi fautrici tutte le generazioni. Tuttavia mi pare si debba riconoscere che l'uomo odierno è molto prono a inginocchiarsi di fronte alle autorità (un po' come nel medioevo) e soffre di una pigrizia mentale che gli impedisce di decidersi a pensare con la propria testa; siamo tornati ad essere minorenni, e in più viziati. Tutto ciò non è altro che adattamento: per pigrizia si torna ad accettare il controllo delle autorità, si abdica nuovamente al proprio pensare. E lo si fa in quanto si ritiene che in fondo con una capacità così grande di archivio e di calcolo, non ci sia bisogno di aggiungere altro. Indubbiamente l'avere a disposizione in pochi secondi l'intero scibile umano su un qualsiasi argomento, nonché la capacità di calcolare rapidamente qualsiasi cosa, dai pixels di un'immagine all'applicazione degli algoritmi più complicati, è un qualcosa che può aiutarci moltissimo; anche a pensare. Ma nell'idea dell'IA generativa c'è dell'atro: c;è la promessa di essere creativa, di saper proporre modelli e idee mai visti prima, semplicemente continuando a elaborare l'entità crescente di informazioni che gli uomini di fatto continuano ad immettere nei sistemi digitali; e anche queste proposte possono essere a volte interessanti. Mah... l'idea che il passare dall'intelligenza al carbonio a quella al silicio ci migliori è in sé pericolosa. Anzitutto perché il mondo del silicio ad oggi è gestito da un solo obiettivo: il denaro. E poi perché non è possibile per il silicio poter valutare nell'ambito creativo quella parte di ciò che viviamo ma che non siamo in grado di codificare. Nel mondo del carbonio abbiamo visto che l'unico fondamento sensato risiede nell'inseità, dove proprio questi aspetti hanno tanta parte nel generare le nostre convinzioni, i nostri princìpi. Perciò far prendere delle decisioni alle macchine (sia in campo teorico che in campo pratico, in Medicina sia campi diagnostico che in campo terapeutico), deve essere ammesso solo là dove i princìpi siano davvero irrilevanti, altrimenti no. Il vero pericolo è oggi rappresentato da chi sostiene che bisogna smetterla di pensare in senso antropocentrico la relazione uomo-robot. Questa deriva porta a de-responsabilizzare le nostre decisioni - da una parte - e dall'atra può invece favorire la "governance", di cui conosciamo le finalità economiche e di controllo delle libertà. Un altro rischio è rappresentato proprio dall'enorme capacità di calcolo dell'IA che permette di replicare velocissimamente un qualsiasi risultato. Rischiamo con ciò di trovarci all'alba di un sistema di controllo - e di violenza - mai visti prima. Non si possono condividere quelle visioni "buoniste" che indicano nell'IA le sue possibili applicazioni positive, sottolineando il fatto che dipende solo da noi il non usarla male. Certo che qualsiasi strumento in sé non è né bene né male, e che tutto dipende dall'uso che se ne fa. Ma anche una qualunque arma non ha mai ucciso nessuno, se un uomo non l'ha usata; però bisogna ricordare che l'uomo l'ha inventata proprio per questo e spesso l'ha usata a questo scopo. Ora, la pletora di strumenti/armi di cui oggi disponiamo riporta ancor più in primo piano l'importanza delle decisioni umane. Decisioni che per l'appunto se vogliamo evitare esiti nefasti, debbono essere basate su pincìpi adeguati, cosa che invece le macchine non possono proprio fare. Sottolineare l'importanza del decidere da uomini implica dunque la necessità urgente di porre dei limiti all'applicabilità dell'IA. Il discorso sui findamenti che ho fatto a proposito del pensiero naturale è ciò che più conta nel contesto attuale. Non si tratta di rinverdire princìpi metafisici piuttosto che teorici o morali; si tratta invece dell'uso pratico del pensiero che dev'essere il faro delle nostre decisioni. Anche in campo medico si possono immaginare e realizzare diversi scenari con l'IA. Nel campo dell'imaging, nell'aggiornare e rendere immediatamente diponibili le statistiche, nel raccogliere e fornire informazioni su malattie rare, nel suggerire ipotesi diagnostiche e terapeutiche, nell'aiutare a inventare nuovi farmaci, nel robotizzare alcuni interventi, e via discorrendo. Ma fare diagnosi e terapia senza basarsi su dei princìpi (cosa che l'IA può benissimo fare) vuol dire eludere la nostra Responsabilità ed è per questo che bisogna opporsi a questo tipo di sviluppo. I miei princìpi sono inviolabili come lo sono quelli dei Pazienti, spetta dunque a tutti noi decidere da uomini e cercare di limitare l'ingerenza indebita dell'IA in un campo che non le appartiene. L'uso del "pensiero" artificiale dev'essere limitato a quello che invece è il suo ruolo precipuo: calcolare e immagazzinare dati per facilitare lo sviluppo del pensiero naturale.
Conclusione
Le nubi del progresso sono indubbiamente legate alla nostra incapacità di trovare idee generali che possano guidare l'umanità verso il meglio piuttosto che verso il semplice adattamento. Il nostro compito è quindi quello di contrastare e ostacolare l'uso indiscriminato degli strumenti che abbiamo a disposizione, cercando di riportare l'attenzione sull'importanza della nostra Responsabilità, sulla necessità quindi di sviluppare un Pensiero Consapevole.